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Gli 80 anni di Gianni Rivera in una canzone di Paolo Capodacqua che parla di un calcio che non c’è più


A Gianni Rivera per i suoi 80 anni -Paolo Capodacqua

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio»
Jorge Luis Borges

Può sembrare strano, ma se dovessi indicare un mio modello di stile musicale direi Gianni Rivera.
Quando muovo le dita sulla chitarra ho come riferimento inconscio le sue movenze calcistiche, quel suo modo di fermare il tempo dell’azione per regalarci delle perle, “dei lampi”, come diceva Nereo Rocco. Poi magari i risultati sono assai inferiori alle intenzioni, ma il modello ispiratore, l’imprinting è quello.
Come canto nella canzone che gli ho dedicato per i suoi 80 anni, Rivera è “l’eleganza asincrona del gesto”.
Quando prendeva la palla si aveva l’impressione che il tempo si fermasse quasi ad aprire uno spazio fuori sincrono dove sta per accadere qualcosa, come a dire: ora il gioco può prendersi una pausa perché è messa in scena la “bellezza”, la teatralità del calcio, il tocco, la geometria perfetta, il calibro, il lampo.
Rivera era il mio mito.
Le orde di ragazzini che negli anni ’60-’70 giocavano per strada avevano dei codici e delle geometrie sbilenche tutte loro. Le porte erano delle pietre piazzate in mezzo alla strada o dei cancelli posti in maniera asimmetrica. Su quei “campi” simulavamo tutta la serietà e la tensione dei nostri campioni di riferimento, ma eravamo pronti a frignare dopo una caduta che ci sbucciava le ginocchia o dopo una randellata di qualche madre spazientita che al quarto richiamo decideva di “scendere in campo” per venirci a prelevare di persona.
 
Per noi ragazzini che giocavamo a pallone per strada gli archetipi di riferimento, gli eroi senza macchia e senza paura, erano quei calciatori galantuomini di allora, oltre a Rivera: Riva, Mazzola, Facchetti e molti altri
Sono diventato milanista perché lui giocava nel Milan, lui era il Mito e Nereo Rocco era lo zio burbero che amavo come uno di famiglia.
 
La mia passione calcistica (oltre all’Avezzano Calcio degli anni ’70) è finita lì. Negli anni ho continuato a seguire un po’ svogliatamente e distrattamente il Milan, ma senza molta passione.
 
La canzone è un omaggio alla mia generazione, quella che non aveva paura di scavalcare i recinti per recuperare il pallone. E’ il ritratto di un’Italia popolare, che trattiene il fiato, che ancora non riesce a credere che la guerra sia finita veramente. Quel calcio, quei campioni, erano l’incarnazione di un’Umanità dignitosa, pulita.
Ma l’immenso Rivera era anche un ragazzo semplice.
Ho provato un senso di tenerezza a rivedere immagini di lui già campione che aiuta la madre a stirare la maglia della Nazionale, o della sua famiglia riunita a tavola, una famiglia come le nostre, il padre ferroviere, la madre casalinga. Anche questi aspetti biografici contribuivano a creare un effetto di vicinanza.
 
Insomma Rivera era il genio, Pasolini lo definiva un “prosatore poetico”, era un ragazzo intelligente e combattivo, aveva proprietà di linguaggio, aveva classe dentro e fuori dal campo, una verve coraggiosa che gli consentiva di polemizzare con arbitri e Stampa o di rivendicare i diritti dei giocatori meno fortunati. 
 
Nella canzone c’è lui e c’è quel momento storico, quell’Italia popolare e laboriosa. Sullo sfondo ci sono la voce della Callas, i richiami delle madri, le case di ringhiera, i quartieri popolari, i treni dei pendolari, i sogni dei bambini della mia generazione. Su tutto c’è l’arte calcistica di un ragazzo di nome Gianni Rivera, un miracolo che va in scena ogni domenica nella meravigliosa cornice di San Siro.





 

 
 
a seguire un articolo di Pippo Russo del 18 agosto 2023 
https://m.calciomercato.com/news/gli-80-anni-di-gianni-rivera-in-una-canzone-di-paolo-capodacqua




















 



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